Pagina iniziale >> Archivio articoli >> STORIA DI VITA... ARTIFICIALE (Tangram n. 12)
STORIA DI VITA... ARTIFICIALE (Tangram n. 12) Stampa E-mail
di Corrado Giustozzi
      

Joh Fredersen si voltò di colpo. Fissò a bocca aperta la creatura che gli stava davanti, mentre gli occhi gli diventavano vitrei. La creatura era, senza dubbio, una donna. (…) Ma, anche se era una donna, non era umana. Il suo corpo pareva fatto di cristallo, attraverso il quale le ossa scintillavano argentee. Il gelo fluiva dalla pelle di vetro che non conteneva una goccia di sangue. (…) Ma quell’essere non aveva volto. La curva superba del collo conduceva ad un blocco di metallo privo di forma. Il cranio era spoglio, il naso, le labbra, le tempie appena accennate. (…) "Sii gentile, mia parodia" disse la voce lontana, che suonava come se fosse la casa a parlare nel sonno. "Saluta Joh Fredersen, il Signore che domina la grande Metropolis."     

 

 

Thea Von Harbou, “Metropolis”, 1912
Ed. Compagnia del Fantastico, 1996
Traduzione di Luigi Cozzi

      

Una decina d’anni fa il mondo fu travolto da una improvvisa passione per un "gioco" strano e particolare, diverso da tutto quanto si era visto sino ad allora, che contagiò milioni di persone come una vera e propria mania collettiva. Oggi a malapena ci ricordiamo del Tamagochi, ma verso il 1995 questo infernale pulcino virtuale imperversò letteralmente su tutto il pianeta: tanto che nel 1997 i suoi ideatori, Akihiro Yokoi e Aki Maita, furono addirittura insigniti del premio IgNobel per l'economia per aver "distratto dal lavoro milioni di persone"! (Ricordo che l'IgNobel è una sorta di "Nobel al contrario" istituito nel 1990 fa da un gruppo di spiritosi accademici della prestigiosa Università di Harvard, col quale si "premiano" i lavori di ricerca più sciocchi, insulsi o inutili comparsi su pubblicazioni ufficiali negli anni precedenti; tutti quelli, insomma, che a norma della motivazione ufficiale "non possono o non devono essere riprodotti").
Il famigerato Tamagochi, "gioco" elettronico consistente nell’accudire e far crescere una rudimentale simulazione di pulcino, nonostante tutto lo scalpore suscitato all'epoca presso l'opinione pubblica grazie alle grida allarmate di psicologi, sociologi e antropologi, non fu che la punta di un iceberg assai più profondo e radicato in noi di quanto crediamo. L'idea di "vita artificiale", di cui esso è stato il primo e di gran lunga più popolare esempio, è infatti ben più antica di quanto comunemente si ritenga, facendo parte di un immaginario tanto inconscio quanto antico. La novità del Tamagochi è stata quella di aver spostato fortemente l'accento dalla simulazione del comportamento intelligente di un organismo, disciplina non nuova e consistente nel tentativo di replicare artificialmente le funzioni mentali di un essere vivente, alla simulazione del comportamento biofisico, ossia alla replicazione di tutte le sue funzioni vitali comprese quelle biochimiche e quelle psicologico-comportamentali.
Così in ultima analisi, pur se in modo inedito, il malefico pulcino non ha fatto altro che riproporci sotto forma di gioco uno dei più profondi aspetti dell’antichissimo ed ancora irrisolto problema filosofico relativo alla dualità fra mente e corpo. Chi l’avrebbe mai pensato?
Questo mese dunque parliamo di "vita artificiale" come estensione estrema del concetto di "intelligenza artificiale" incontrato nelle precedenti chiacchierate. E vedremo che, alla fin fine, sempre di gioco si tratta…

 

In principio erano gli automi

Partiamo dunque dall’inizio, con un excursus storico che ci permetta di inquadrare meglio il moderno concetto di “vita artificiale”. Se lasciamo perdere l’ultimo mezzo secolo, ossia il periodo storico caratterizzato dalla presenza del computer, l’idea di “vita artificiale” intesa come costruzione di organismi meccanici o semi-biologici in grado di riprodurre le funzioni tipiche degli esseri viventi, è antichissima. Narra ad esempio la mitologia greca che Efesto, il dio del fuoco e della meccanica conosciuto dai latini come Vulcano, nella sua ardente officina sotterranea dove costruiva tra l’altro i fulmini per Zeus, poteva contare su di una nutrita schiera di aiutanti artificiali, uomini meccanici parzialmente vivi che aveva costruito lui stesso affinché svolgessero il lavoro manuale. Oggi li chiameremmo automi o robot, ma il concetto è lo stesso.
Molti furono i grandi ingegni del passato che, per puro diletto intellettuale o per compiacere e divertire i potenti loro mecenati, costruirono meccanismi in grado di imitare alcuni comportamenti degli esseri viventi, di solito animali. Si racconta che Erone, famoso matematico e fisico vissuto ad Alessandria nel I o II secolo, avesse costruito un uccello metallico in grado di cinguettare ed alzarsi in volo battendo le ali, ed un cavallo che si abbeverava ad una fontana; e si sa per certo che il grande Leonardo da Vinci costruì vari animali meccanici per gli spettacoli e le grandiose feste che si tenevano alla corte milanese di Ludovico il Moro.
Nel 1700, secolo in cui trionfano la meccanica di precisione e l’orologeria, la passione per gli automi diviene così prepotente da influenzare profondamente anche l’arte e la cultura: assieme ad innumerevoli e complicatissimi carillon, il “secolo degli automi” ci lascia infatti realizzazioni mirabili quali lo “scrivano”, che intinge la penna in un vero calamaio e traccia parole su un foglio di carta, o la “pianista” che suona una spinetta muovendo realmente le dita e seguendo con gli occhi le note sullo spartito. Frutto di questo periodo è anche il famoso e famigerato “Turco” del barone Von Kempelen che giocava imbattibilmente a scacchi perché al suo interno, celato astutamente fra complicatissimi quanto inutili meccanismi, si nascondeva in realtà un campione umano di piccola statura; ma si trattava essenzialmente di una burla e non di un imbroglio, e comunque il suo autore, strana ed affascinante figura di ricco erudito, aveva in precedenza seriamente studiato e realmente realizzato una macchina pneumatica in grado di imitare la voce umana e di pronunciare alcune semplici ma comprensibili frasi.
Sull’influenza di queste realizzazioni il secolo successivo ci proporrà memorabili figure artistiche direttamente ispirate alla creazione di vere e proprie vite artificiali; a seconda dei casi queste ultime sono ottenute come estremo perfezionamento degli automi meccanici, che finiscono per trascendere la loro natura di macchine (è tale la bambola meccanica protagonista del balletto “Coppelia”) ovvero come superamento delle leggi della biologia ottenuto mediante l’uso dell’elettricità, nuova e sconosciuta forma di energia da poco padroneggiata ma ancora non bene compresa (è ovviamente il caso di “Frankenstein o il novello Prometeo” di Mary Woolstonecraft, che darà l’avvio ad un intero genere letterario).

 

Poi vennero i robot

Il fortunato termine “robot” nasce solo nel secolo scorso da un’invenzione del drammaturgo ceco Karel Capek, ed in origine stava ad indicare esclusivamente un androide meccanico e non, come lo intendiamo oggi, qualsiasi tipo di meccanismo in grado di agire autonomamente. Esso deriva dalla parola ceca “robota”, che significa “lavoratore”, ed appare nel dramma sociologico “R.U.R.”, ovvero “Rossum’s Universal Robot” degli anni ’20. La storia è semplice: il protagonista, appunto Rossum, costruisce degli uomini meccanici da impiegare come instancabili lavoratori nelle sue fabbriche; ma naturalmente queste creature finiscono per ribellarsi e distruggere il loro creatore. Una trama che oggi ci appare banale e scontata, ma all’epoca non lo era poi tanto.
Di poco precedente al lavoro di Kapec, e in qualche modo imparentato con esso anche se di impatto ben diverso, è il romanzo “Metropolis” (1912) di Thea Von Harbou, dal quale ho tratto la citazione iniziale. Da esso la sua autrice ricavò una sceneggiatura cinematografica che fu poi utilizzata nel 1926 da suo marito, il famoso regista Fritz Lang, per realizzare il notissimo film omonimo. Grazie alla sua fortissima carica emotiva, alla eccezionale forza delle immagini, all’indimenticabile ambientazione, alla meravigliosa bellezza delle architetture futuriste, “Metropolis” rimane una delle pietre miliari della cinematografia nonché uno dei più straordinari film di culto di tutti tempi: e ciò lo si deve anche, se non soprattutto, all’inquietante ma allo stesso tempo affascinante figura dell’ineffabile e bellissima donna-robot creata dall’inventore pazzo Rotwang.
La storia è ancora una volta una proiezione delle problematiche sociali di quegli anni di inizio secolo, figli di un Illuminismo sconfitto e sconvolti dalle tensioni fra diversi modelli dello stato e del lavoro: il Signore di Metropolis, Joh Fredersen, commissiona a Rotwang degli uomini meccanici che possano rimpiazzare i lavoratori umani nell’accudire alle gigantesche macchine-moloch da cui dipende la vita della città; ma Rotwang gli fornisce invece una misteriosa donna robot che, assunte le sembianze di Maria, una ragazza del popolo amata tra l’altro dal figlio di Fredersen, incita i lavoratori alla rivolta e li spinge a distruggere le macchine e con esse il sistema sociale.
E proprio Maria-robot, gelida e bellissima creatura artificiale, sintesi estrema dell’eterna contraddizione tra vita e non-vita, tra angelo e diavolo, incarna due secoli di immaginario collettivo diventando il prototipo di tutti i robot presenti e futuri; tanto che cinquant’anni dopo le sue linee ancora attuali verranno esplicitamente prese come modello da George Lucas quando si tratterà di dare forma ad uno dei due automi protagonisti della fortunatissima serie cinematografica di Guerre Stellari, il “droide di protocollo” D3-BO (ovvero C3-P0 nella versione inglese).

 

 

La mente separata dal corpo

Dopo Metropolis la letteratura e il cinema abbandonano in qualche modo il tema della creatura artificiale, che ritorna solo in produzioni di cassetta legate ai generi “facili” quali l’horror più bieco e la fantascienza di serie B. Forse si è detto tutto, e comunque il mondo precipita ben presto in una vicenda assai più drammatica ed importante che non lascia spazio ai sottili problemi dell’essere.
Dopo la guerra le cose sono irrimediabilmente diverse da prima: sono cambiati i sistemi sociali, sono cambiati alcuni dei problemi, e comunque c’è un personaggio nuovo con cui fare i conti: il computer. La “calcolatrice logica” sognata da Leibniz, la “macchina analitica” inseguita da Babbage, sono ora una realtà. E con i primi calcolatori digitali, drammaticamente denominati “cervelli elettronici”, riemerge dal dimenticatoio quello che Isaac Asimov, scienziato e scrittore di fantascienza, definirà con termine quanto mai azzeccato “complesso di Frankenstein”: ovvero la paura, istintiva ed ingiustificata, della “macchina pensante” vista come mostro malvagio che inevitabilmente finirà per distruggere il proprio creatore.
E proprio mentre Asimov ridà fiducia alla letteratura inventando i “robot buoni”, grossi elettrodomestici pensanti ma fedeli all’uomo e totalmente innocui grazie all’imprinting nei loro cervelli positronici delle cosiddette “Tre Leggi”, il mondo della scienza si interroga nuovamente sui problemi ontologici fondamentali chiedendosi con sempre maggiore affanno se le macchine non possano pensare per davvero, e non debbano dunque essere considerate a rigore come nuove forme di vita. A questa domanda intrisa di xenofobia strisciante reagì perentoriamente il logico e matematico Alan Turing con un famoso saggio col quale, spostando abilmente la domanda dal campo della filosofia a quello dell’ingegneria, ritenne di aver dato la risposta definitiva, se non il colpo di grazia, al problema; ma di fatto aprì un vaso di Pandora ricco di temi ancor più controversi, la riflessione sui quali ha portato al moderno dibattito sull’Intelligenza Artificiale.
Tutto ciò che si è fatto da allora, e sono passati ormai cinquant’anni, è stato investigare sulla possibilità di realizzare, e sulle eventuali modalità di realizzazione, una “mente artificiale”. Per la prima volta l’uomo disponeva di un laboratorio astratto su cui sperimentare modelli della mente, e questo laboratorio era il computer: ovvero una sorta di mente “pura”, asetticamente definibile, non condizionata da un substrato fisico-biologico con i suoi portati psicologici. L’attenzione dei ricercatori ha dunque sempre più abbandonato l’idea del robot androide per concentrarsi solo sul concetto di mente intesa come organizzazione astratta di concetti, in base al principio per cui volendo replicare il funzionamento del pensiero non c’era bisogno di costruire un cervello di protoplasma né un suo modello fisico, ma bastava replicarne in software le strutture cognitive.

 


Ritorna il corpo… simulato

Ma in questi ultimissimi anni, in una sorta di oscillazione a ritroso del pendolo, l’attenzione di alcuni ricercatori è ritornata verso il substrato fisico, rivalutando lo studio e la modellazione delle strutture biologiche che sottendono al pensiero, per poter meglio studiare ad esempio i fenomeni del comportamento.
Le reti neurali e gli algoritmi genetici sono dunque un tentativo di comprendere i fenomeni cognitivi replicando, mediante appositi modelli matematici, il funzionamento delle strutture biologiche nelle quali essi si inseriscono. Di fatto si tratta di replicare la “vita” per intero, non già solo una parte, ancorché di elevato livello, delle sue funzioni tipiche.
Questa nuova disciplina, denominata oramai in modo generalizzato “vita artificiale”, può in qualche modo essere vista come un ulteriore livello di specializzazione di quei modelli matematici nati per descrivere complesse dinamiche sociali in gruppi di esseri viventi, quali i famosi modelli preda-predatore e via dicendo. Se si cambia livello al modello matematico, tentando di descrivere non più il comportamento statistico di un insieme di individui (e chi non ricorda la psicostoriografia di Asimov?) ma il funzionamento di ciascun individuo, si può ottenere una simulazione globale della dinamica del gruppo lasciando che un gran numero di individui agisca liberamente interagendo con gli altri secondo il proprio modello di funzionamento.
Se le regole sono semplici e l’astrazione è forte parliamo di “automi cellulari”, ed il riferimento canonico è al “gioco” Life di John H. Conway. Se invece la simulazione è spinta sino alla riproduzione dei meccanismi genetici e biologici di un “vero” essere vivente, quello che si ottiene è un vero e proprio “animale virtuale” dotato di una sua fisiologia e di un “istinto” che lo fa agire. Il nostro tanto bistrattato Tamagochi è un oggetto del genere, anche se ovviamente non pretende di essere una simulazione realistica del comportamento di un vero pulcino. Ma questo solo perché il modello utilizzato è semplificato al massimo, comprendendo un numero limitatissimo di comportamenti e nessun meccanismo biologico di livello inferiore. Con un po’ più di attenzione si potrebbe realizzare un vero animale virtuale, ed anzi c’è chi l’ha fatto sul serio. Sempre per gioco, naturalmente, ma con un'attenzione ai particolari davvero minuziosa ed un rigore scientifico elevatissimo, che fanno di questo "gioco" una sorta di vero e proprio esperimento di vita simulata.
Sto parlando di "Creatures", un tipo di gioco davvero nuovo ed assai profondo nato anch’esso verso la metà degli anni ’90 ad opera di un ricercatore dell’Università di Cambridge, e consistente nell’allevare e far crescere delle piccole creaturine intelligenti, simulate all’interno del computer, dette Norn. Al contrario del Tamagochi, i Norn hanno una loro fisiologia ben determinata: sono infatti simulati, anche se con ovvie approssimazioni, tutti i principali sistemi vitali di un organismo vivente. I Norn devono mangiare e dormire; crescono attraversando le fasi della vita dall’infanzia alla vecchiaia; apprendono dall’esperienza, possono ammalarsi ed essere curati; sviluppano comportamenti individuali, mediante i quali interagiscono socialmente coi propri simili; si innamorano dei loro simili di sesso opposto, si accoppiano e partoriscono dei cuccioli verso i quali esercitano cure parentali, insegnando loro le regole di vita ricavate dalla propria esperienza del "mondo". Un gioco estremamente affascinante e molto particolare, all’apparenza semplice ma fondato su una tecnica sofisticatissima e su un tessuto scientifico di straordinaria complessità.

 


Cuccioli virtuali

Oggi "Creatures" non esiste più come prodotto commerciale, anche se è rimasta viva la comunità di "giocatori" che continua a portare avanti mediante Internet le proprie simulazioni. Ma l’industria dell’intrattenimento ha proposto un prodotto per certi versi ancora più sconvolgente: un vero cucciolo robotizzato, in grado di emulare tutte le funzioni di un cucciolo vero… e qualcosa di più. Si chiama Aibo ed è prodotto nientemeno che da Sony, il colosso giapponese dell’elettronica di consumo. Ha la forma e le dimensioni di un cagnolino, ed è dotato della capacità di muoversi autonomamente su quattro zampe evitando gli ostacoli. Impara a riconoscere il volto del suo padrone e gli si affeziona; apprende dall’esperienza, sviluppando comportamenti autonomi; gioca con gli oggetti, ad esempio una palla; impara a riconoscere comandi vocali e ad eseguire semplici ordini; può interagire con cuccioli della stessa "razza". È il primo vero animale robot totalmente autonomo, un capolavoro di meccanica e di intelligenza artificiale.
A che serve Aibo? A nulla, se non a "giocare". Solo che il gioco in questione, tutto sommato, è la vita stessa. Come disse una volta Oscar Wilde: "La vita è una cosa troppo importate per prenderla seriamente".

 

 

Robot Maria     
Il robot "Maria", creato dall’inventore pazzo Rotwang nel film "Metropolis" di Fritz Lang, è l’archetipo di tutte le forme di vita artificiale nella moderna fantascienza.