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IL GIOCO E' UN VIAGGIO A DONDOLO (Tangram n. 12)

di Gianfranco Staccioli

Giocare sembra una cosa da ragazzi, e saper giocare, pure. Tutti giocano o hanno giocato (almeno si spera). Ma siamo proprio sicuri che tutti noi siamo ‘capaci di giocare’? E che differenza c’è fra giocare e saper giocare? 
      
La città sottile
Ottavia è il nome della città sottile che Calvino inserisce fra gli invisibili luoghi che Marco Polo descrive a Kublai Kan: “C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle... una rete che serve da passaggio e sostegno. Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge” (Calvino I., Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972,  pag.81). La città di Ottavia sembra essere il luogo perfetto per affrontare un paragone con le situazioni ludiche. 
Anche i giocatori impegnati nello svolgersi di un gioco sono sospesi fra due picchi scoscesi (che comunemente definiamo realtà e fantasia) e si tengono costantemente in equilibrio fra queste due polarità. Usano gli oggetti di gioco o intessono relazioni con altri ‘viandanti’ tenendo conto dello spazio e del tempo. Essi avvertono il senso di realtà che li circonda e non osano rischiare più di tanto né con le cose (si farebbero male) né con le persone (resterebbero soli). Ed avvertono, nello stesso tempo, la possibilità di essere sganciati dal tempo e dallo spazio, dando vita anche a imprese impossibili, improbabili, irreali. Se i giocatori si dimenticano di essere sostenuti dall’una e dall’altra sponda, l’equilibrio si rompe ed il gioco finisce. 
I buoni giocatori (in genere) sanno che “più di tanto la corda non regge”. Solo chi si lascia travolgere dal gioco (come il giocatore di Dostoevskij) o chi finge di giocare (come avviene a scuola con molti giochi didattici) spezza le corde e rischia di cadere nel vuoto. Camminare sulle corde sospese (che si muovono a seconda del peso o dei movimenti) richiede destrezza e competenza, richiede la consapevolezza di essere in un luogo protetto e nello stesso tempo incerto. Ed è proprio questa consapevolezza, ci dice Calvino, che fa di Ottavia una città sicura. 
     
Prendere le distanze
Su questi fili il giocatore esercita il proprio impegno e può sperimentare la distanza da ciò che comunemente egli ritiene ‘reale’. Nel gioco e nel giocare un po’ di coraggio ci vuole (un coraggio che è direttamente proporzionale al crescere dell’età), perché nessun gioco è senza rischio. Lo sanno bene quei bambini che possono ancora giocare da soli (si fanno male, piangono, litigano). Ma il rischio è limitato in rapporto alla capacità di ‘distanziarsi’ dalle sponde, che inevitabilmente ogni giocatore (viandante di Ottavia) acquisisce. 
Distanziarsi significa vedere che il luogo nel quale si ci si trovava ‘prima’, il tempo nel quale si viveva un attimo prima, gli affetti e le persone alle quali tenevamo, ci sono, ma sono diversi, relativi, distanti, possibili di cambiamento, di mutazione. Prendere le distanze non è negare l’altro (o le cose), ma piuttosto è capacità di riconoscerne la transitorietà, di accoglierne la relatività e la loro condizione di essere e di non essere. Il tutto in un contesto che per definizione è piacevole, accettabile e accettato, un contesto che non fa di una diversità un dramma, ma casomai ammicca all’ambiguità e chiede equilibrio.
Dondolarsi (distanziarsi) in equilibrio è un piacere ed un rischio, ma è anche un gioco dal quale non si dovrebbe fuggire. Il viaggio del giocatore che si avventura lungo la corda ‘sottile’ che unisce le sponde del reale con il ludico, può essere pieno di sorprese. Il viaggio, almeno quello ritenuto tale fino agli inizi novecento, non esiste quasi più. I viaggi sono oggi guidati, previsti, calcolati, programmati con cura. Neanche il viaggio più breve come un weekend al mare ha più il sapore di un viaggio e di un’avventura. Abbiamo persino imparato a controllare – per evitare le code del traffico - le ore di partenza e di arrivo. 
     
Un viaggio ludico
Quando pensiamo ad un viaggio nel gioco pensiamo più all’avventura che al tour turistico; un’avventura che ha come elemento fondante l’imprevedibilità e l’incertezza. Quando ci si mette in condizioni di giocare veramente, non si può evitare l’oscillazione della corda che dondola fra reale e non reale, fra conosciuto e sconosciuto, fra certo e incerto. Che nel gioco vi siano regole esplicite o implicite, che vi siano altri giocatori o meno, che si usino oggetti di un tipo o di un altro, poco conta. Il gioco non si ripete mai uguale e se stesso, non è mai dato riavere una sequenza ludica allo stesso modo (anche nei primi giochi di esercizio dei bambini piccoli le variazioni sono inevitabili).
Questo chiarisce la imponderabilità del ludico, la sua connaturata ‘contingenza’ (che è qualcosa che sta fra il reale e il possibile) e ci conferma che ogni ricerca di fissazione, di standardizzazione non aiuta nel viaggio. Le variabili di imponderabilità non riguardano solo i luoghi ed i tempi del gioco, o le interazioni comunicative (e metacomunicative) che un giocatore instaura con un altro, ma sono anche legate al viaggio interiore, al dialogo con se stessi, all’incontro con le proprie capacità o incompetenze, alla paura di perdere o al desiderio di prevalere, alla sfida con se stessi o alla rinuncia a misurarsi con le proprie percezioni di sé.
I giochi contemporanei, quelli sportivi in particolare, cercano di superare l’incertezza che è caratteristica di ogni viaggio ludico formativo. La loro forza persuasiva è notevole; ogni adulto che gioca o che fa giocare altri ne è coinvolto; ogni bambino (anche prima dei tre anni) percepisce questa forza culturale implicita. Questi giochi si basano sull’Agon che rappresenta una delle forze profonde che muovono al gioco e che l’uomo occidentale ha cercato costantemente di regolamentare per ottenere parità di condizioni nel confronto fra più giocatori.
L’Agon è “una competizione, un cimento in cui l’uguaglianza delle opportunità di successo viene artificialmente creata affinché gli antagonisti si affrontino in condizioni ideali, tali da attribuire un valore preciso e incontestabile al trionfo del vincitore” (Caillois R., I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 1981, pag. 30). Nella ricerca di una assoluta parità, i giochi sportivi di oggi si trovano a dover negare l’avventura, l’incertezza, il dondolio fra il certo e l’incerto, l’oscillazione fra il reale e il non. I luoghi, i tempi, le performance, i punteggi, tutto viene standardizzato e omogeneizzato. Ma proprio per questo essi diventano il luogo delle illusioni, non nel primo senso etimologico del termine (in-ludere, entrare in gioco), ma nel suo secondo senso (in-ludere prendersi gioco). La ricerca illusoria di poter dare al gioco un vestito ‘serio’, oggettivo, controllabile è un prendersi gioco di se stessi, o – peggio - degli altri. 
     
Tre illusioni
Tre illusioni dominano questa ricerca: l’illusione definitoria, quella egualitaria e quella demiurgica. L’illusione definitoria è legata all’idea di performance che è a sua volta connessa a due altri concetti a) avere un limite da superare, b) dare una conclusione al gioco. La performance costringe il gioco entro una regolamentazione ‘stretta’. I giochi che sfuggono alla regolamentazione vengono esclusi dalle attività sportive e vengono degradati ad attività ludiche (non solo infantili). E’ il caso del Tiro alla corda (escluso dalle Olimpiadi), o dei giochi a La cavallina; ed è il caso di molti giochi tradizionali. L’illusione egualitaria è quella che costringe a costruire delle regole che abbiano la massima uguaglianza fra i contendenti (di peso, di sesso, di competenza…), che presentino il gioco come uno scontro ‘a pari condizioni’. L’illusione demiurgica è l’idea che si debba e si possa controllare completamente il gioco: da qui la semplificazione dei comportamenti motori, la presenza di arbitri, l’esclusione delle discussioni fra i giocatori, l’allontanamento della dimensione affettiva… 
Un esempio di illusione egualitaria: tutti i giochi occidentali di oggi sono simmetrici. Nessuno si sognerebbe nella nostra cultura di organizzare una partita di calcio con undici giocatori da una parte e sette dall’altra. Questo esclude (dal prestigio culturale) una gamma di possibilità dissimmetriche che sono presenti in molti giochi di culture e tempi diversi: dissimmetrie funzionali (come nel gioco de Il bastoncino; dissimmetrie spaziali (La conquista dello spazio); attitudinali (Cayà); temporali (I maestri del soffio); numeriche (Boma, boma)… (per le spiegazioni di questi giochi si veda: AAVV, 24 jeux sans frontières. Jeux sportifs, CEMEA. Paris 1999). I giochi dei bambini ed i giochi che gli educatori propongono ai bambini sono permeati da queste tre illusioni: la trasmissione culturale ludica avviene in tutti noi in forme implicite ed esplicite e ci spinge a credere che l’Agon, il confronto ludico si debba modellare a partire da questi tre principi che noi abbiamo chiamato ‘illusioni’.

Esempi di gioco
I maestri del soffio.Questo gioco è un esempio di dissimmetria temporale e numerica. I giocatori possono prendere gli avversari per un tempo non stabilito, ma dipendente dal suono continuo che un giocatore riesce ad emettere senza riprendere fiato. Ogni giocatore che entra  nel campo avversario è solo contro tutti.
Il gioco appartiene alla tradizione di molti paesi. In India del Sud, ad esempio, il gioco, chiamato Malayalam - tutt’ora presente – si gioca dicendo Pallì, pallì, pallì… (tarantola) in continuazione, senza riprendere fiato.
Come si gioca: due squadre di ugual numero su un campo rettangolare; una squadra in una metà campo, l’altra nell’altra. Un solo giocatore alla volta entra nel campo nemico emettendo un suono continuo e comprensibile. Può prendere gli avversari con un tocco (ne prende uno e lo porta nel proprio campo) e continuare a prenderli finché continua ad emettere il suono. Al termine deve essere rientrato nel proprio campo, altrimenti può essere toccato e fatto prigioniero dagli avversari. Dopo di lui tocca ad un avversario entrare con le stesse regole nell’altro campo. I giocatori eliminati si sistemano all’estremità del campo avversario e possono essere liberati da un compagno che è entrato in gioco con il proprio suono.
     
Un esempio di illusione definitoria fra i giochi sportivi contemporanei è Ultimate, un gioco di squadra con sette giocatori da una parte e sette dall’altra che si lanciano il frisby, con regole che ricordano il rugby americano. Il gioco si svolge senza arbitraggio. Una delle regole esplicite che i giocatori si sono dati è quella di non ‘giocare sporco’, di non affermare il falso relativamente alle proprie azioni o a quelle viste fare dagli altri, così da trarne vantaggio nei confronti dell’avversario. In più, per conferma di questo atteggiamento ‘onesto’ il campionato assegna una speciale premio alla squadra che si è comportata più lealmente in campo. A detta dei giocatori di Ultimate, questo è il premio più ambito. Samo di fronte ad un gioco sportivo che capovolge il comune rapporto regole-giocatori: il rispetto non è demandato ad un personaggio arbitrale esterno, ma rimane proprietà (e vanto) dei giocatori. Una curiosità: le associazioni di Ultimate hanno fatto richiesta di entrare negli sport ufficiali. La richiesta è stata negata perché nelle partite non è previsto l’arbitro. E l’arbitro – come si sa – rappresenta qualcosa di più di una garanzia per i giocatori. L’arbitro è la garanzia del rispetto e della staticità delle regole. Le regole devono essere statiche anche perché devono essere comprensibili per gli spettatori. 
     
Modelli impliciti
Ecco allora, che appare un nuovo ‘modello implicito’ al gioco (oltre a quello della ricerca di simmetria fra chi si confronta) che ci riconferma che tutti i giochi sono ‘giochi profondi’: questo secondo ‘implicito’ dice che un gioco è interessante se è ordinato, se risulta comprensibile, se è modellato sugli spettatori, più che sui giocatori. 
Insomma, dentro le regole dei giochi, dentro le modalità di gioco ci sono messaggi culturali, etici, ideali… che non appaiono sempre al primo sguardo. Per questo occorre essere capaci di giocare, cioè di capire che cosa “si mette in gioco quando si gioca”. Gli esempi che abbiamo fatto ci sembrano utili per chiarire la differenza che c’è fra giocare e saper giocare.
Un viaggio dondolante sulle corde delle regole ludiche, è anche un viaggio un po’ avventuroso nell’incertezza del gioco, perché insegna a vedere le cose in maniera non rigida. E’ un viaggio possibile solo se si capiscono ‘come’ sono fatti i giochi, quali modelli propongono, quali messaggi essi inviano. Giocare in un modo o nell’altro non è indifferente, come non è indifferente scegliere a cosa giocare. Non è solo il giocatore a determinare il gioco, anche il gioco stesso contribuisce ad avvolgere il giocatore in un contesto fatto di norme e di regole che sono qualcosa di più di un regolamento momentaneo o di uno strumento esclusivamente funzionale all’incontro ludico. Imparare a giocare è un percorso, un viaggio, un’avventura incerta fra le corde tese di una città sottile come Ottavia.