di Cosimo Cardellicchio La Livoria è un trucco. No, non un imbroglio, bensì quel tipo di giochi in cui si cerca di far passare delle bocce attraverso un anello di ferro conficcato nel terreno. La dizione completa è "Trucco da terra" come questi giochi sono catalogati nell'Enciclopedia dei Giochi di Giampaolo Dossena (UTET, 1999). La Livoria è quel trucco da terra che si giocava a Taranto. Sopravvive oggi in questa città con difficoltà, nel ricordo di pochi estimatori, oramai di una certa età. In altri tempi, agli inizi del Novecento, era un gioco molto diffuso, praticato da popolani, ma anche da nobiluomini. Addirittura, lungo la Marina, esistevano anche degli affittalivorie, per chi non possedesse il necessario e usava prenderlo in affitto solo per la durata della partita. Prima di continuare, una precisazione: è impossibile parlare di Livoria senza parlare di Taranto, del suo folklore e del suo dialetto. Giocando, vi sono rituali e frasi obbligate, si parla, si grida, si tifa, si irride lo sconfitto. Bisogna parlare in dialetto tarantino ma, per la brevità di quest'articolo, non è possibile lanciarsi in lunghe dissertazioni fonetiche. E' opportuno, però, dare un paio di suggerimenti per sentire almeno il profumo della pronuncia del dialetto tarantino. 1) Tutte le "e" non accentate devono essere pronunciate estremamente chiuse, quasi inesistenti, con una pronuncia che si impara solo da un tarantino. 2) Attenzione agli accenti sulle vocali toniche, perché alcuni di essi non hanno equivalenti nella lingua italiana. Si parte. Sarà descritta la versione di gioco più semplice, limitata a 2 persone. In effetti, esiste la possibilità di giocare anche con un numero maggiore di giocatori (fino ad 8), ma questa possibilità non sarà descritta. Materiale e obiettivo del gioco. Servono due bocce di legno (una per ciascun giocatore), due palettine, un po' più grandi di una mano, per spingere le bocce (le palètte) e un opportuno anello di ferro (la livoria), di diametro lievemente maggiore delle bocce, anello su cui è saldato un ferro che termina a punta, che sarà piantata nel terreno. Piantando così la livoria, esiste la possibilità che essa ruoti, per effetto di un colpo che la prenda lateralmente. Questa rotazione, oltre a non essere esclusa, diventa un piacevole accidente in partita. Il fine del gioco è far passare la propria boccia attraverso l'anello "dal lato giusto". Poiché, come detto, la livoria potrebbe anche ruotare, e quindi il "lato giusto" potrebbe confondersi, su uno delle facce di entrata sono incisi dei segni (tacche, crocette o simili) per distinguere il "giusto" dallo "sbagliato". Se la boccia entra dal lato giusto ('a vócche, la bocca) si conta un punto positivo; se la boccia entra dal lato sbagliato ('u cúle, il culo) si conta un punto negativo. Il punto negativo dovrà essere pareggiato ripassando d' 'a vócche (e questo pareggiare si dice pécecúle). La Livoria si gioca su un campo di terra battuta o analogo, possibilmente piano, di una lunghezza di circa 15 o 20 metri, in cui si pianta l'anello a circa due terzi della lunghezza dello stesso. Luoghi soliti per le partite a Taranto erano 'a Maríne (attuale via Garibaldi) o piazza Castello, possibilmente in un posto a' mandàgne (luogo soleggiato e riparato dal vento). Si comincia. Il gioco inizia con i due giocatori che, dal lato del campo più lontano dall'anello, lato detto 'a menáte (luogo di gettata: menáte è il participio passato del verbo menáre, lanciare), lanciano (anzi sgàgliene) la propria boccia verso l'anello, affinché conquisti una migliore posizione per il futuro del gioco. Questa fase è scandita dal grido "Ce pônne íje, so' ddòje" (se riesco a entrare nell'anello con solo questo colpo, ho diritto a due punti), ovvero è attribuito un premio (2 punti), se il lancio fosse così preciso che la boccia attraversa la livoria. I colpi fondamentali. Dopo questo lancio (l'unica volta in cui le palle sono scagliate con le mani), comincia il gioco vero e proprio, in cui, al proprio turno, si colpisce la propria palla con la propria paletta. La palla deve attraversare l'anello d' 'a vócche, come detto, ed è anche opportuno adoperarsi per evitare che l'avversario lo faccia. E' quindi lecito anche colpire la palla avversaria per allontanarla (colpo detto fecózze), oppure (e bisogna essere maestri per farlo) colpire la palla avversaria ammasáte nnànze a' scìdde (che è proprio davanti all'anello, pronta per entrare), usarla come sponda, allontanarla e fare punto con la propria (il tutto si dice nàcchere e pùnte, ovvero allontanare la palla avversaria -nàcchere- e passare con la propria attraverso l'anello per il punto). Se invece di passare attraverso la livoria, si sbaglia il colpo e si colpisce l'anello facendolo ruotare, l'errore si chiama Scìppe Cardùcci, colpo derivato da un esponente della nobile casata dei Carducci, ahi-lui modesto giocatore. Cáve. I punti si guadagnano anche in un altro modo: se la palla avversaria fosse a una distanza di almeno una paletta e due dita (distanza che si misura con la stessa paletta utilizzata per manovrare la palla durante il gioco) e fosse in direzione d' 'a menáte, si può tentare il cáve (intraducibile, forse dal latino caveo). Questo colpo consiste nel colpire con forza la palla avversaria con la propria; se questa dovesse essere stata ributtata sino a raggiungere la linea di menáte, si contano due punti. Si può tentare anche il cáve da ngúle (che vale ben tre punti), ovvero passando dal cúle (ed è l'unico caso in cui lo si possa fare senza penalità), bisogna realizzare il cáve. Se la palla avversaria è colpita, ma non riesce a tornare oltre la linea di menàte, si contano solo due punti. Se la palla avversaria non è proprio colpita, si è fatto un cúle che bisognerà poi pareggiare. Giocatori provetti, poi, tentano il cáve pur restando dal lato del cúle, facendo saltare la livoria con un tiro a salto (a' zumbìcchie). In ogni momento della partita c'è quindi da valutare se conviene avvicinarsi alla livoria, per fare punti attraversandola, o allontanarsi dalla stessa, cercando il cáve sulla palla avversaria. Al momento del cáve, chi ha intenzione di giocarlo annuncia ai presenti "Cáve, ce 'u tìene è fàtte" (sto per tirare il cáve: se tratterrai la palla, il punto sarà valido lo stesso). L'annuncio è fatto per evitare che chiunque, giocatori o spettatori, possa disturbare questo colpo spettacolare. Altre voci. Capita alle volte, nella foga, che uno dei due tocchi inavvertitamente la palla avversaria (in genere con un piede). Immediatamente l'altro giocatore dichiara: "No' ppué cacà!" (non puoi cacare!). Chi ha commesso il fallo chiede: "Pózze piscià?" (posso pisciare?) e l'avversario acconsente, ma l'infrazione costa cara: infatti al tiro successivo chi "non poteva cacare" non potrà far punti di qualsiasi tipo (normali, cáve o cáve da ngùle), né potrà tirare a' fecózze, né potrà colpire la livoria, per farla ruotare. Non c'è che dire: sono strane voci quelle che si aggirano su un campo di Livoria, probabilmente corruzioni dialettali di altri vocaboli, forse di origine spagnola. Altre volte, con cavalleria, chi tira chiede desènze (permesso) de múscetìe (ovvero di pulire il campo da gioco da sassolini o altro). Termine del gioco. Nel caso si giochi in due, il termine della partita è ai dodici punti. E poi tanto altro ancora, ma il resto è folklore e se ne parla un'altra volta.
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